A con ZETA di Hakan Günday

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Nell'alfabeto ci sono tutte le storie del mondo

alcune hanno un nome, se siamo fortunati due.



Oğuz Atay:
Leggere un libro spesso porta a guardare oltre la trama, i personaggi o lo stile narrativo; leggere un libro è porre attenzione ai dettagli di una storia, è entrare nelle parole di chi l'ha scritto e scovare la scintilla primordiale; la costante che ha messo al suo posto ogni singolo punto, paragrafo, personaggio, intreccio.

Ecco chi è Oğuz Atay in questo arguto romanzo di Hakan Gunday. 

A con Zeta in realtà parla brevemente di questo scrittore scomparso prematuramente nel 1977, fu il padre della narrativa Turca contemporanea, annegò il romanzo realista Turco in una pozza fatta di quotidiano, di complesse realtà individuali, raccontandone l'alienazione, il disagio, il conflitto con sé stessi e con le convenzioni sociali.

Ma per arrivare ad Oguz bisogna passarne tante di lettere dell'alfabeto, almeno cinque, che si moltiplicheranno allo specchio, per essere sempre le stesse ma di genere differente.

Ed è così che Derdâ poco più che bambina commette il suo primo crimine, o tuttalpiù è così che si sente, semplicemente colpevole. Il suo essere bambina finisce da li a poco, la sua innocenza si frantuma contro la rigidità delle tradizioni rurali, nonostante il chador nero che l'avvolge, la vita penetra attraverso l'unica cosa che le rimane scoperta: lo sguardo.

I suoi occhi di pece si poseranno su tutto, soprattutto sul male, sul dolore, provato ed inferto quasi in un contrappasso Dantesco dove Derdâ tra l'adolescenza e l'età adulta passerà dall'essere vittima di violenze sessuali ad utilizzare la violenza per indurre piacere.
Una Mistress dal fascino Orientale che recita in porno sado-maso, mentre pare aver chiesto indicazioni precise per la deriva, sia del corpo che dell'animo e dal sadismo al masochismo il passo è breve così come si può passare dalle caramelle ad una dose di eroina.
Il Sadomasochismo non è altro che un modo per capire la realtà delle cose.
La tossicodipendenza, la cura, l'amore che nasce, quello puro incontaminato di una madre acquisita, il riscatto e il sorriso.
Derdâ è un racconto, delicato nonostante le sue componenti più cupe, ironico nonostante la crudeltà e l'efferatezza dei gesti, dei momenti, delle persone; un racconto che a tratti sembra non veder mai sorgere il sole ma laddove la tenebra sembra più fitta è proprio il suo sguardo ostinato al futuro a regalarci speranza.

Ed è così che Derda (senza accento) poco più che bambino si incammina secchio in mano per guadagnare qualche spicciolo lavando le tombe al cimitero. Derda è analfabeta e più che lavorarci al cimitero ci vive, in una baracca che si regge grazie al muro di cinta dei campi elisi moderni; il padre in carcere, la madre morta; la vita di Derda è segnata, vivere di espedienti per sopravvivere è l'unica alternativa, perchè aspettare la paura è peggio della paura stessa.
Finisce per lavorare, oramai cresciuto troppo per impietosire le elemosine al cimitero, in una stamperia pirata ed è proprio qui che Derda si imbatte nell'incontro che gli cambierà la vita. 
Sono proprio due parole, che per un analfabeta non sono null'altro che disegni senza alcun significato, a riportare Derda al cimitero, alla sua infanzia e ad una tomba lavata e curata per anni su cui quei simboli senza significato ora sono gli stessi che tiene tra le mani, su una copertina di un libro;

ci siete arrivati sicuramente, ma ve lo dico lo stesso, quelle otto lettere potevano vestire una sola persona:
Oğuz Atay!

Derda (senza accento) è un racconto, delicato nonostante la sua irruenza, risoluto come il suo protagonista.
Derda scoperto quel nome, Oğuz Atay, imparerà a leggere e a scrivere, imparerà che per arrivare a trovare sé stesso e superare la sua alienazione, il suo disagio, dovrà farlo a colpi di pistola ed anni di carcere. Ucciderà il suo essere Kafkiano ( pur non avendo idea di cosa sia esserlo ) eliminerà da sé stesso l'insicurezza, la paura, la solitudine, l'assurdità e l'incomunicabilità. 

Farà tutto questo con una lettera, ricevendone un'altra in cambio.

Az in Turco significa poco ma nell'interminabile spazio che separa la A dalla Zeta ci sono tutte le parole che servono per far si che questo spazio si restringa quanto basta per portare due nomi ad essere uno solo.


Recensione Sensoriale


Vista: le vetrine di un Sexy-Shop a Soho


Olfatto: L'odore di pagine non ancora sfogliate

Gusto: Mandorla

Tatto: Stagnola


Voglie Impulsive


Imparare il Turco

Sentire il canto del Muezzin all'alba

Lottare per me stesso

Peso in Valigia: 503 Grammi

Investimento: 18€

Editore: Marcos y Marcos

IL PUZZLE DI DIO di Laura Costantini e Loredana Falcone

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Dio non può avere frammenti,

solo l'uomo ha il potere di spezzarsi.


Il ritardo con cui mi accingo a scrivere questa recensione è figlio, anzi no è Padre: nel senso che è autore di quelle che sono delle emozioni che conserverò per sempre. Ma questi discorsi esulano il contesto letterario e al fondo della recensione ne capirete l'origine.

Questo Romanzo è stato il mio primo e-book in assoluto, la goWare casa editrice digitale mi ha supportato nel #Progetto52 portando alla mia attenzione il lavoro di Laura Costantini e Loredana Falcone; un giallo scritto a quattro mani e probabilmente centinaia di ore di ricerca per quello che posso serenamente reputare un Thriller curato in ogni dettaglio, dalla scrittura alla caratterizzazione dei personaggi quanto alle nitide atmosfere dal sapore medio-orientale.

Due donne che scrivono una spy-story. È facile immaginare uomini abili e dal carattere ben delineato, è così è: Il colonnello Demedici ed il Maggiore Landi sono Romani, addestrati, efficienti e indubbiamente affascinanti. Sono militari, ma rivelano attraverso un dialogo in bilico sul filo dell'amicizia e del rispetto dei ruoli, la difficoltà di far trasparire i sentimenti a scapito dell etica professionale.

Donne che scrivono di donne.
La vera chiave di volta di questo mistero "digitale" è la grandezza delle due figure femminili che si muovono tra l'interlinea e l'immaginazione del lettore: Sumitra e Nesayem.
non sono "amiche", vengono da due parti del mondo distanti migliaia di chilometri, quello che le unisce è il fatto stesso di essere tessere di un puzzle, e che seppur consapevoli o meno della loro importanza in questo rompicapo, hanno dalla loro due storie incredibili ambientate in luoghi e tradizioni che vengono gradualmente svelati.
Posti come il Nepal o il deserto del Sahara, popolazioni sperdute nel tempo, i Berberi, una lingua che rischia l'estinzione così come il suo popolo, Roma, una caccia internazionale a tessere di pietra grandi quanto un tavolo da pranzo ed un Planisfero composto da 348 di queste ultime; un mosaico, un Puzzle di Dio che sembra giungere a noi direttamente dalle epoche preistoriche ma che custodisce un messaggio cupo e sinistro...quasi quanto la Bassa vercellese e i suoi scheletri nascosti in piscine di cemento.

In tutto questo, quasi non bastasse ci sono da aggiungere ancora un paio di elementi degni di nota, un agente Americano tendenzialmente sociopatico e sanguinario: Mister Liberty, e due all'apparenza felici innamorati Saro e Daniel che fanno del loro amore il perfetto rifugio da una vita di soprusi e intolleranza ma che nasconde qualche cosa di ben più premeditato e definitivo.

Nonostante la mole di informazioni e personaggi dove facilmente ci si sarebbe potuti perdere o creare un continuo e fastidioso rimbalzo tra le parti, è stata vincente l'attenta analisi e costruzione dei capitoli ed in questo il mio plauso va a chiunque abbia optato per una costruzione così organica e funzionale della storia rendendola piacevole e fruibile.

Il lavoro di ricerca sia storico che geografico hanno contribuito a trasformare un intreccio tutto sommato "semplice" in un impianto narrativo complesso e stratificato.

Forse in conclusione manca un po' di originalità ma il rischio di rovinare tutto in modo grossolano e incoerente ha giustamente posto un freno alla fantasia privilegiando la storia, che come sempre è la sola, in questi casi, a contare.


Recensione Sensoriale




Olfatto: Capelli bagnati

Gusto: Cumino

Tatto: Silicio

Voglie Impulsive


Rivincere il Derby della Mole

Comprarmi un Kindle ( lo ammetto, ho odiato l'Ipad per leggere l'E-book per via dei riflessi sullo schermo e delle ditate che vanno a "sporcare" la lettura e ad affaticare gli occhi )

Sprofondare i piedi nella sabbia bollente


Peso in Valigia: 613 Grammi ( Peso dell Ipad Second Generation )

Investimento: 4.99€ 

Editore: GoWare

LA VITA DAVANTI A SÉ di Romain Gary

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Hai presente il Giovane Holden

ecco se fosse nato nelle Banlieue sarebbe Momò


Come escono le parole da queste pagine?
Quale archimedica spinta ricevono per poter galleggiare sulla superficie umida degli occhi?

È una lingua meticcia, di sostanza adulta ma nella forma bambina; è come tornare indietro nel tempo quando anche ciò che non aveva un nome lo si comunicava attraverso l’uso di parole prese in prestito dai grandi.
Quella ricerca affannosa dei bambini di potersi esprimere ma soprattutto di essere capiti, poiché è la via più semplice per essere amati.

Romanin Gary, la cui esistenza non ha resistito forse al peso della vita stessa (è morto suicida  a 66 anni ), ha scritto questo romanzo, La Vita Davanti A Sé, raccontando di un ragazzo e dei suoi dieci anni. È la Parigi degli anni 70, dove i quartieri più poveri vedono la maggior concentrazione di immigrati i quali sono il popolo ed i francesi una sparuta minoranza. 

È il racconto della vita nelle Banlieue quando ancora queste non sapevano di essere tali, è un incrocio di lingue, razze, traffici, mestieri e personaggi che, visti con occhio adulto, non potrebbero riservare alcuna sorpresa se non pietà o ribrezzo  ma,  agli occhi di un bambino queste figure assumono i contorni della famiglia. Laddove la povertà, la provvisorietà, la paura sono il quotidiano e dato che la felicità è nota per la sua scarsità sono le persone e il loro animo ad essere l’unica ricchezza, l’unico rifugio, la sola speranza.
Questa storia appartiene a Mohammed detto Momò, ragazzino sveglio e sensibile, consegnato a Madam Rosa in una sorta di casa famiglia dove condivide con altri bambini la stessa sorte, quella di essere dei figli di puttane.

Così Momò ci racconta che le donne che facevano la vita non hanno diritto di avere la patria potestà, è la prostituzione che lo richiede, al fine di evitare di perdere il bambino e di vederselo consegnato al Brefotrofio si preferiva affidarlo a gente che si conosceva e la cui discrezione era assicurata.

Madam Rosa è una matrona, tanto grassa che quando cammina sembra essere un trasloco vive al sesto piano in un condomino a Belleville e si prende cura di questi figli del Mestiere ricevendo in cambio un vaglia mensile per il loro mantenimento. La condizione di questi bambini è pressoché permanente, le madri non torneranno, Madam Rosa è l’unica donna della loro vita.
Ma questa è la storia di Momò e di quei giorni, quando scopre l’amore, quello di essere figlio e farà di tutto perché questo amore non finisca mai perché c’è una cosa ben peggiore dell’essere soli al mondo, ed è esserlo in due.

Tutto intorno ruotano personaggi meravigliosi nella loro semplicità, da Madam Lola il travestito del Bois de Boulogne,  ex pugile, scolpito nella pelle color ebano ma dall’animo delicato, passando per Hamil, l’amico anziano di Momò che parla ed affascina perché usa termini da saggio ed ha una viscerale passione per Victor Hugo, fino al Dottor Katz che più che curare deve rassicurare Madam Rosa e la sua ipocondria.

Commuove e riesce a far sorridere l’innocenza che sostiene questo romanzo, c’è quello che nel mondo d’oggi non si vuole, ci sono le persone prima della razza, le storie prima della lingua, i sentimenti prima delle religioni. No, non è Momò a farci da traghettatore in queste questioni così “adulte” di rilevanza così sociale, perché non saprebbe neanche come poterle esprimere ma, dove non arrivano le parole arriva il suo agire, ingenuo e sbruffone, ed è la miglior risposta a tutte le domande che il mondo, forse da sempre, si pone di fronte ai “problemi” di integrazione:

Bisogna volersi bene.


E se lo dice Momò che ha dieci anni e forse qualcuno in più, vale la pena dargli ascolto.


Recensione Sensoriale


Vista: Scatola di Scarpe


Tatto: Carta stagnola

Gusto: Miele

Olfatto: Una candela appena spenta

Voglie Impulsive


L'odore dell'acqua di colonia di mio padre

Un pallone, un cortile e una estate senza fine

Un sacchetto di caramelle


Peso in Valigia: 286 Grammi

Investimento: 9.90€

Editore: Neri Pozza

SOSPETTO di Percival Everett

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"Per uccidere un uomo

il piombo è l'ultimo dei rimedi."


Lessi anni fa uno dei romanzi di Percival Everett per la precisione Ferito, una storia ambientata nel Wyoming con protagonista un cowboy eclettico di mezza età che si ritrova suo malgrado a fronteggiare una situazione che aveva a che fare con un "crimine d'odio".
Ciò che allora mi aveva colpito nel leggere questa storia fu come attraverso un uso pressoché maniacale di periodi essenziali, della punteggiatura e di dialoghi ridotti all'osso, l'autore riuscisse a trasmettere e bene ogni singola sfumatura sia dei personaggi che del contesto in cui erano inseriti.

Questo essere deciso, tagliente, granitico non pesava sul romanzo, anzi  mi restituiva la netta percezione di dove ero e a che punto della storia e che tutto quello che sarebbe accaduto non mi avrebbe mai e poi mai sorpreso del tutto poiché era già scritto dovesse accadere.

Sospetto è esattamente così. Gioca con il lettore Percival Everett con una storia di crime fiction che in ultima analisi lo è nell'intento ma non nella forma; son tre racconti, brevi, che funzionano solo nel loro insieme. È la storia di un vice-sceriffo in un paesino tra i monti e il deserto del New Mexico, Ogden Walker, afroamericano, patito di pesca con la mosca e abile fautore di esche tanto da sembrare un novello modellista mentre armeggia tra ami, piume e fili vari sul suo banco di lavoro.
È il perfetto prototipo della piccola borghesia americana, così lontana dai grattacieli, dallo stress e dai ritmi frenetici delle Big Town; vive in una realtà dove non succede mai niente e sembra che però tutti non aspettino altro che invece accada qualcosa e come dicevo prima inevitabilmente accade.
Ogden si troverà suo malgrado a dover indagare su tre casi di omicidio a macinare chilometri spostandosi tra grandi città e minuscole comunità montane, affrontando tutto quello che l'america lontana dai grandi palcoscenici rivela: droga, prostituzione, fallimenti, alcool, razzismo, sangue.

Unico rifugio a questa "confusione" la sua roulotte ai margini del deserto, la pesca con la mosca e l'affetto e preoccupazione di una madre che sa Sempre ciò che accade in città poiché anche lei ha i suoi informatori.

Il vice-sceriffo dovrà indagare su tre casi distinti di omicidio, e tutte e tre le volte come in un buon romanzo giallo la verità verrà a galla, soldi ben spesi dunque, non fosse per il semplice dettaglio che è proprio nell'inizio che il romanzo nasconde il suo cuore più nero.
Sospetto non sarà più solo un titolo ma ben presto diventerà una condizione.  La verità sarà da ricercare percorrendo insieme a Ogden le più tortuose ed impervie strade del New Mexico a bordo del suo datato ma affidabile pick-up.

Ci si addentrerà nella vita delle persone, nella loro disperazione e semplicità, nei loro fallimenti e lealtà; in quella fragilità che è propria di ogni essere umano e che neanche la vera amicizia talvolta riesce ad intuire.

Percival Everett ci lascia vivere Ogden Walker più di quanto lo stesso vice-sceriffo probabilmente vorrebbe, il suo essere decisamente cinico ed arguto, simpatico ma scostante fa di lui il perfetto ritratto di un uomo sbagliato, nel posto sbagliato, al momento sbagliato.

"La gente mi fa paura".
"Anche a me, tesoro".

C'è un punto preciso in cui quella paura si fa viva, ed una volta scoperto è impossibile liberarsene;
Ogden Walker ci sta conducendo proprio li.



Recensione Sensoriale


Vista: Macchie di caffè sulla tovaglia


Tatto: Una palla da Bowling

Gusto: Uova Strapazzate

Olfatto: Cuoio


Voglie Impulsive


Una camicia di Flanella

Tazza di caffè americano e ciambella

Aldol Darkene Triptizol
Noan Anasclerol
Valitran Serpax Vatran

Peso in Valigia: 309 Grammi

Investimento: 16€

Editore: Nutrimenti

IL FIGLIO di Philipp Meyer

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Dio benedica il Texas,

e Dio benedica gli Stati Uniti d'America.



Il figlio di Philipp Meyer è sia un romanzo storico che una saga famigliare. L'intuizione geniale per rendere sopportabile una tale mole di informazioni, di immagini e di usi e costumi persi nel tempo è stata quella di raccontare la storia di una sola famiglia, utilizzando principalmente tre personaggi:

Eli McCullough, secondo genito del capostipite Armstrong McCullough.
Peter McCullough figlio di Eli
Jeanne Anne, nipote di Peter.

Sono tre voci, isolate nello schema della narrazione, ognuna con la sua storia, che non si sovrappongono mai. Raccontano a loro modo, con le tribolazioni, gli scontri, le incomprensioni, delusioni, speranze e rancori, quello che è stato ed è "servito" per fare dei McCullough una delle famiglie più rispettate e potenti del Texas per ben sette generazioni.

A ben vedere è la storia di come gli Stati Uniti d'America siano diventate una potenza a livello Mondiale, e che forse Dio ha iniziato a benedire quando anche l'ultima pistola nell'ultimo appezzamento di terreno ad Ovest, ai confini col Messico, ha smesso di fumare.

Eli è un ragazzino, è il 1846, suo padre fa parte di quei primi coloni che si trasferiscono oltre la linea dei primi insediamenti urbani, in una terra avuta in concessione dal governo. La terra è viva, brulica di creature selvagge, libere e tutto è rigoglioso, ma se l'unico difetto è che quel piccolo paradiso è territorio di caccia Comanche, l'unico problema invece è quello di tenersi lo scalpo attaccato alla testa.

Peter è un cuore nobile, colto, idealista ma in fondo vigliacco. Anche lui, come tutti nella famiglia, deve portare l'onore e l'ònere di essere un McCullough ed è attrraverso i suoi diari che veniamo a conoscenza di come e a che prezzo, questa rocciosa famiglia sia diventata una icona non solo del Texas del sud, ma di tutti gli ex stati confederati.

Jeanne Anne è una guerriera, una "indiana" come spirito. Una donna cresciuta in un contesto prettamente maschilista dove la sua colpa più grande è il suo sesso e questo le preclude tutto. La sua voglia di emergere di essere come "loro", come il padre e soprattutto accettata come i fratelli fa di lei grazie alle attenzioni del Colonnello (il Nonno) una donna risoluta e orgogliosa. Forte come una mandria di bisonti e sola come un lupo che ha perso le tracce del suo branco.
È la custode ultima del nome dei McCullough, dei loro segreti più reconditi, del loro sangue così come di quello che è stato versato.

La narrazione è densa, non si adegua ai personaggi e non cerca di smussarne gli aspetti del loro carattere, è come se fosse l'albero genealogico a parlare e gli spigoli, così come gli accenti, sono tutti marcati nessuno escluso. 
C'è sangue, odio, ricchezza, la pace quella non esiste, nemmeno la morte lo è nella sua eternità.

Eli da ragazzino viene rapito dagli indiani che sterminano la sua famiglia, la sua prigionia negli anni si evolve e lui diventa sempre più parte della tribù, vive con loro e ne sposa usi e costumi. Tutti gli indiani son figli di qualche prigioniero: è così che la loro stirpe si è evoluta finché i bianchi non hanno iniziato a sterminarli. 

Eli, diventato uomo, è ritornato alla civiltà e ha deciso che per rivivere quegli anni selvaggi, quell'essere libero e senza alcuno a condizionarne le scelte sia di vita che di morte (altrui), deve mettere i soldi al suo servizio. Qualche intuizione, le nuove possibilità di appezzamenti rigogliosi e sterminati vicino ai confini col Messico, il saper e voler usare la pistola fanno di lui e di quello che sarà la sua famiglia una icona temuta e rispettata.

Peter vorrebbe seppellire tutto questo, tornare ad una vita più semplice, fare pace col passato della famiglia e con le sue onte. Cercare un compromesso che faccia felici tutti e che liberi dall'incombenza di essere un McCullough le generazioni future. Il suo "tradimento" non porterà da nessuna parte anzi rafforzerà ancora di più l'idea granitica che la famiglia viene prima di tutto a tutti i costi.

Jeanne Anne si adopererà affinché questo impero continui per le prossime dieci o cento generazioni, utilizzerà le terre per ricavarne petrolio laddove prima si allevavano bisonti, terrà alto il nome della famiglia perdendo gradualmente i propri affetti, facendo di tutto per essere pari coi maschi del Sud che la vedono come un intralcio, una alterazione e non come una donna capace, risoluta, scaltra, e più intelligente di loro.
La ricerca disperata di un legame, di una radice comune che tutti potessero riconoscerle e il continuo e ingeneroso paragone coi morti della sua stirpe, così immobili nella loro perfezione e così lontani eppure intatti, mentre giorno dopo giorno la sua carne diventava sempre più debole e il suo Orgoglio le sopravviveva.

È una storia di ombre che si muovono come spiriti su una terra allora rigogliosa e col passare del tempo sempre più povera e sporca.
Non sono i Cowboy dello spaghetti western o gli indiani degli scontri con il Generale Custer, non sono nemmeno gli anni dove si è fatta l'America e la sua democrazia. Non è una fiction, è la vita delle persone e di come queste attraverso le proprie passioni e il libero arbitrio abbiano manipolato, modificato ed infine generato la convinzione che finché una cosa non porta il tuo nome, quella non vale un cazzo.

Possediamo tutti il copyright della nostra esistenza, ma solo se ci viene riconosciuto dallo sguardo succube di chi ci osserva allora capiamo che la nostra posizione nel mondo sarà sempre quella di una casa bianca in cima alla collina, che domina incontrastata e per migliaia di acri su un cielo carta da zucchero e polvere cremisi all'orizzonte.



Recensione Sensoriale


Vista: nuvole di polvere al tramonto


Tatto: le frange di un plaid di lana grezza

Gusto: un bastoncino di liquirizia

Olfatto: resina fresca 


Voglie Impulsive


Rileggere La casa degli spiriti di Isabel Allende

Comprare uno Stetson

Leggere un libro più facile ( faccina che ride )


Peso in Valigia: 614 Grammi

Investimento: 20€

Editore: Einaudi

L'ERBA DELLE NOTTI di Patrick Modiano

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"....La butto in caciara,

faccio menar le mani tra pagine e cuore."


Si dice che gli eventi maturino, cioè non che accrescano il nostro grado di saggezza o esperienza, bensì che per un principio riconducibile a qualche postulato delle leggi di Murphy ci si trovi dinnanzi ad un particolare evento e che questo una volta accaduto sia capace di ripetersi in maniera del tutto simile nel giro di pochi tagli di tempo.
La scorsa Recensione parlavo di come una postfazione mi avesse svelato un mondo di narrazione che non avevo saputo riconoscere ed apprezzare.
Perfetto, in modo simile, ci risiamo.

Il libro di Patrick Modiano (Premio Nobel per la Letteratura 2014) L'erba delle Notti invece di svelarsi grazie a qualche ulteriore pagina posta tra la parola fine e il piatto posteriore aveva nascosto nel risvolto di copertina un nome particolare, che grazie a qualche ricerca storiografica mi ha reso più compiuto il senso dell'opera.

Ora, di cosa vi posso parlare?
Del libro, che è un viaggio in prima persona frugando tra i ricordi scaturiti da un taccuino nero, di una Parigi sotterranea e carbonara dove avvenivano incontri in certi caffè a tarda notte presidiati dalla buoncostume, di vie, quartieri, appartamenti che il tempo ha cambiato, ridipinto ma il cui fascino e inquietudine di quei giorni riemergono prepotenti.
Appunti in un taccuino nero, alcuni nomi stranieri e di concittadini, ovviamente una donna affascinante e il sospetto che sia stato commesso qualche cosa di grave, una frattura, uno svantaggio.

Perchè leggere dunque una specie di diario che viaggia avanti e indietro nel tempo?
Perchè leggere di un giovane scrittore che cerca di ricostruire una storia che lo aveva coinvolto non solo emotivamente?

Una risposta? Non lo so.

È una lettura che da la sensazione di essere ad un passo dal riunire tutti i frammenti e l'oggetto che ci verrà restituito sarà inevitabilmente simile all'originale, ma crepato, rovinato dalla caduta, dalla gravità dell'evento e dal tempo, che non cauterizza ma dilata le ferite.
Cicatrici buie e profonde dove si perdono le parole e la superficie frastagliata dei ricordi non coincide mai perfettamente con quella dei rimpianti.


È stata una lettura difficile, trangugiata quasi.
La scrittura non ha colpa alcuna anzi, ma per via delle condizioni in cui ho dovuto leggere questo libro l'ho patito.
Essermi posto l'obiettivo di completare la lettura di 52 libri in 52 settimane fino ad adesso mi aveva solo restituito belle storie, emozioni sparse e impressioni da affidare ai pixel di uno schermo; ciò che ignoravo è che la vita ci riserva situazioni a cui non siamo preparati, ed una cosa che da sempre affianchiamo allo svago o evasione come la lettura invece diventa obbligo e etimologicamente siamo vincolati a rispettare questo patto anche quando la mente, gli occhi, i pensieri dovrebbero e vorrebbero essere da tutt'altra parte.
Sì, mi sono cacciato in gola letteralmente questo libro, l'ho letto controvoglia, contro-tempo finanche contromano.

"Il potere delle storie" qualcuno lo chiamerebbe, l'onda lunga di un racconto, ecco oggi mi trovo a scrivere questa confessione più che recensione perchè quel dannato risvolto di copertina e quel fatto storico (che non vi svelo per darvi al solito il modo di andare in libreria, aprire il libro, sbirciare, digitare su google e poi bullarvi al bar) hanno rilanciato con forza la sensazione che quello che avevo appena letto fosse un opera affascinante. 
L'uso iniziale di ripetizioni costanti, di rimandi come se si leggesse davvero un taccuino di appunti presi e dimenticati, il cercare di svicolare una matassa tra l'hall di un albergo e stanze sconosciute, in cui, una volta abbandonate ci si ricorda di aver lasciato la luce accesa. Più per aver presente a sè stessi di esserci passati, di averci vissuto, che per una dimenticanza non programmata.

Questo viaggio inizia esattamente nel giorno in cui ogni settimana io devo portarlo a compimento e Modiano, da Premio Nobel per la letteratura quale è, semplicemente in sedici parole ci spiega perchè è il momento in cui tutto accade:

Ma se sei da solo, sopratutto nel tardo pomeriggio,
le Domeniche aprono una breccia nel tempo.

Buona Lettura. 


Recensione Sensoriale


Vista: Inevitabilmente Rue du Montparnasse


Tatto: Tende di velluto rosso

Gusto: Liquore triple sec

Olfatto: Inchiostro


Voglie Impulsive


Origliare una conversazione sussurrata

Prendere una decisione

Fare una scelta giusta per la ragione sbagliata

Peso in Valigia: 288 Grammi

Investimento: 18€ 

Editore: Einaudi

PICCOLI SUICIDI TRA AMICI di Arto Paasilinna

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L'ultima pagina

ecco a volte c'è anche dell' altro.


Il Libro di Arto Paasilinna Piccoli Suicidi Tra Amici è stata forse la prima vera delusione.
La prima in 11 settimane, l'undicesimo libro mi è stato "fatale".

Il perchè è presto detto, non avevo letto la Postfazione.
Tollero di buon grado le Prefazioni, mi piace quell'idea che qualcun altro abbia avuto il piacere e il modo di scrivere qualche parola introduttiva sull'opera che mi appresto a leggere, che mi sia data la possibilità di sbirciare dallo spioncino delle parole quello che sarà il contenuto del libro.

Ma no, la Postfazione è un abuso del mio tempo. Ma come, ho letto tutto, fino all'ultima pagina cosa c'è da dire ancora? cosa mai ci sarà di così importante da dedicare ancora ben sei pagine alla postfazione.

La storia l'ho trovata carina, semplice, scorrevole, con qualche risata a denti stretti, una delicata ironia di fondo, personaggi scapestrati ma credibili e una sequela di eventi che alimentano la voglia di andare a vedere dove "andrà a parare".

Ecco. Prendete questo pugno di righe e mettetelo a rosolare in padella, aggiungete un pizzico di superficialità e stupore, supponenza quanto basta e lasciate cuocere senza coperchio. 

Chiedo scusa a Arto Paasilinna, una volta letta la Postfazione l'avventura da lui narrata compie una mirabolante acrobazia in avanti, si proietta come un'opera sottile e geniale dove il significato profondo è molto più radicato di quanto le semplici parole lascino intendere.
C'è la Finlandia, il suo popolo, la sua terra, la sua storia, molto alcool ma anche cibo in dosi massicce, coraggio e viltà, umiltà e amore, rimorso ma mai rancore.
Il mio compito ora è quello assai difficile, non svelandovi troppo su personaggi e trama, di invogliarvi a leggere questo libro senza passare in libreria, cercarlo sullo scaffale in esposizione e andare a curiosare tra le ultime pieghe di questa storia.

Prefazione "di" e a questo punto anche "per" Luca Morello.


Una delle cose più belle dei romanzi di Paasilinna è che prima ancora di leggerlo ti domandi come cacchio si pronuncia Arto Paasilinna.
In sè il problema appare ad una prima occhiata insolvibile ma è ancora peggio quando ci si imbatte in Onni Rellonen, Hermanni Kempainen, Helena Puusaari .
Si dice che il ceppo linguistico ungaro-finnico sia quasi insormontabile, che non vi sia alcuna parola di senso compiuto ad avere una qualunque attinenza con le lingue non solo di origine latina, ma a questo punto anche aliena vien da pensare.
Come il portoghese deriva dal basso latino, così il lappone deriva dal bramito delle renne
e se ce lo ricorda Arto nel libro vale la pena credergli.
Questi tre singolari personaggi, in ordine di apparizione: un marito e uomo d'affari fallito, un colonnello senza stimoli e senza guerre da combattere ed una vicepreside sensuale ma paranoica, si adopereranno per riuscire a coordinare un gruppo di aspiranti suicidi ad intraprendere nel modo più "dignitoso" possibile l'ultimo viaggio della loro vita.
Onni e Hermanni si incontrano casualmente in un capanno vicino ad un lago, poichè entrambi hanno scelto inconsciamente il medesimo posto per suicidarsi questo inconveniente spegne sul nascere le loro ardimentose e definitivamente autolesionistiche intenzioni. Da questa esperienza preliminare grazie all'estate, al lago e a qualche goccetto di troppo viene loro l'idea che in fondo suicidarsi non è cosa così semplice. Ci vuole, metodo, disciplina, organizzazione e buona compagnia.
Così decidono di inserire un annuncio su un quotidiano Nazionale per radunare gli aspiranti suicidi della Terra di Finlandia. Ovviamente è un successo e le lettere li sommergono letteralmente.

La Grande Macchina della fine di tutto si mette in moto, saranno 33 (come gli anni di Cristo) i discepoli che intraprenderanno il Gran tour del Macabro, a bordo di un pullman di lusso a viaggiare per la Finlandia fino al limite estremo della Norvegia per poi tuffarsi in picchiata verso sud, passando la Germania, l' Alsazia, la Svizzera e il passo del Furka fino a deviare verso la Spagna e il Portogallo.
Ogni luogo sarà buono per farla finita, ma quello dopo sarà sempre meglio.
Un viaggio rincorrendo la Morte per poi essere sempre al foto-finish con la vita.
Incontri e scontri non mancheranno, perchè si può scherzare con la morte, ma con la vita no!

La semplicità del racconto e della sua scia di eventi lo rende quasi una limpida confidenza, un modo di accusare una società oramai troppo veloce e inquinata da ambizioni e indifferenza da lasciare indietro i suoi figli, che seppur sbagliando, arrancando come tutti, vorrebbero farcela. Riuscire nell'impresa che sembra la più facile mentre si rivela sempre la più irrisolta: esser felici.

La Finlandia è una terra dove la natura è padrona, spazi sconfinati e capaci di straordinaria bellezza quanto di struggente malinconia. Arto Paasilinna ci guida in questa quotidianità, non dimenticando mai piccoli ma delicati dettagli, dalle scorte di cibo e legna, all'immancabile bottiglia per condividere con una bevuta un particolare momento fino alle votazioni per alzata di mano sul dove si va e perchè...e dire che quando si va verso la fine, qualunque meta parrebbe buona...ma per un Finlandese No!

Gireremo a lungo su questo Pullman "la Saetta della Morte" prima di giungere ad una destinazione, che poi questa sia fine od inizio non è compito mio svelarvelo.
Scopritelo.


Recensione Sensoriale


Vista: Renne sullo sfondo di un cielo dove il blu diventa nero


Tatto: Il filo di una lama

Gusto: Sabbia

Olfatto: Monossido


Voglie Impulsive


Il calore di un falò

Il lato ancora fresco del cuscino

Un buon blues



Peso in Valigia: 255 Grammi

Investimento: 14€ (Oppure leggetevi di nascosto la Postfazione di Diego Marani)

Editore: Iperborea